Trieste, 1924. Durante la ricreazione, i bambini della scuola elementare giocano, parlano ad alta voce e lanciano aerei di carta. La vista dalla finestra è dominata dal mare, che è anche argomento di discussione tra Julka, Marko e Danilo, i tre alunni sloveni della classe. Mentre Danilo sta dicendo a Julka che è andato a pescare di notte in estate, Marko tira di nascosto la treccia di Julka e Danilo gli corre dietro. “Pej no sem, Danilo!” (“Vieni qui, Danilo!”), dice Julka. Non riesce a vedere l’insegnante di italiano che sta entrando e la sente parlare in sloveno.
Un silenzio, pesante come una pietra, cade sulla classe e tutti fissano Julka. Il maestro la afferra violentemente e la appende al gancio per la treccia. I suoi occhi si inumidiscono mentre i suoi piedi non toccano il suolo. La vista dei suoi compagni di classe si offusca mentre sono costretti a scrivere mille volte sui loro quaderni “Devo parlare solo italiano”. Il fiocchetto della treccia di Julka si adagia sul gancio dell’attaccapanni come una farfalla ad ali aperte.